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LA RICERCA DELLA VERA FEDE - THE SEARCH OF TRUE FAITH

ARTICOLO DEL 2013 SULLA QUESTIONE DELLA MANCATA DIMISSIONE DAL ‘MUNUS’ DA PARTE DI BENEDETTO XVI

IL PRIMO ARTICOLO DI DENUNCIA: “La rinuncia di Benedetto XVI. Tra storia, diritto e coscienza“, di don stefano Violi

Dalla “Rivista Teologica di Lugano” XVIII, 2 / 2013. L’autore è sacerdote della diocesi di Modena e insegna diritto canonico nella Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna e nella Facoltà di Teologia di Lugano



Introduzione



«Ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro».

Con queste parole, che in pochi secondi hanno fatto il giro del mondo, Papa Benedetto XVI, l’11 febbraio del 2013 davanti ai Cardinali riuniti in Concistoro, dichiarava in latino la sua rinuncia. Il gesto, per quanto inaudito (1), appare in realtà in piena sintonia tanto con la storia della Chiesa e del suo ordinamento giuridico, quanto con la storia personale del Vescovo di Roma o Papa emerito (2).

Il nome stesso di Benedetto, scelto dal cardinal Joseph Ratzinger il 19 aprile del 2005 al momento della sua elezione al soglio di Pietro, già richiamava la rinuncia papale effettuata, secondo parte della storiografia, da Benedetto V (964) (3). Rinunciò al pontificato anche Benedetto IX (1045), almeno stando alla tradizione accolta e proposta da san Pier Damiani nel De abdicatione Episcopatus, opera scritta per legittimare la sua rinuncia alla dignità cardinalizia (4).

Dal punto di vista canonistico, l’istituto trovò la sua prima formulazione normativa nel Liber Sextus promulgato da Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caietani. A quella norma si richiama il can. 332 § 2 del CIC 1983, che riprende, con lievi modifiche, il canone 221 del Codice precedente, promulgato nel 1917 da Benedetto XV.

La formula con cui Benedetto XVI ha dichiarato la sua decisione, discostandosi dal dettato codiciale, introduce però un precedente giuridico innovativo nella storia della Chiesa, ultimo atto solenne di magistero. Nel presente saggio intendo fondare tale ipotesi di lavoro mediante alcune riflessioni storico-canonistiche sulla declaratio di Benedetto XVI.


1. Precedenti storici, dibattiti dottrinali e formulazioni normative


Come è noto, nei primi secoli della Chiesa la notizia delle rinunce del vescovo di Roma non trova conferma in una produzione documentaria tale da permettere uno studio critico-filologico approfondito. Esse venivano tendenzialmente assimiliate ad una rinuncia episcopale o alla depositio per apostasia (5).

I tre casi di rinuncia maggiormente recepiti dalla letteratura medievale dei “presunti papi” Clemente Romano, Ciriaco e Marcellino, pur apparendo oggi come inattendibili, tra il XII e il XV secolo furono usati come exempla, ovvero precedenti autorevoli per argomentare la liceità delle dimissioni papali.

Maggiore attendibilità storica paiono presentare le rinunce dei papi Ponziano (231-235), Cornelio (251-253) e Liberio (352-366) (6). Secondo la storiografia più recente la rinuncia di Ponziano, deportato in Sardegna e condannato ad metalla durante la persecuzione di Massimino il Trace, costituisce la prima rinuncia documentata nella Storia della Chiesa (7).

Per ulteriori testimonianze di rinuncia al pontificato bisognerà attendere il secolo XI. Dalla fine del IV secolo al X secolo le fonti danno notizia di rinunce all’episcopato vuoi a motivo dello zelum melioris vitae, vuoi a causa della malitia plebis (8). Chiedendo a papa Nicolò di accettare la sua rinuncia all’episcopato, Pier Damiani addurrà come causa principale la vecchiaia, età più consona alla quiete che alla fatica (9).

Merita particolare menzione il tentativo di rinuncia di Celestino III, ormai prossimo alla morte, avvenuto alla fine del 1197, cui i cardinali negarono il consenso.

Innocenzo III, suo successore, nel discorso sulla consacrazione del pontefice, invocando l’argomento dello spirituale coniugium tra sommo pontefice e Chiesa di Roma, dichiarò indissolubile tale legame se non a causa di morte; continuando la metafora nuziale, affermò illecito il divorzio tanto se compiuto volontariamente (renuntiatio), quanto se indotto involontariamente (depositio), ammissibile solo in caso di eresia (10).

La posizione espressa da Innocenzo III costituirà uno dei principali argomenti del dibattito relativo alla renuntiatio. Alla fine del XII secolo infatti prende avvio la riflessione canonistica sulla rinuncia. Le poche e lacunose fonti in tema di rinuncia papale portarono la dottrina ad adottare un modello di rinuncia traslato dalla casistica episcopale (11).

Gli elementi fondativi verranno ravvisati dalla dottrina decretistica nella causa della rinuncia e nel defectus superioris, ovvero nell’impossibilità di rinunciare nelle mani di un superiore gerarchico. Baziano, in una glossa a lui attribuita e riportata in uno dei primi apparatus al Decretum Gratiani, riconosceva come cause valide a legittimare la renuntiatio il desiderio di abbracciare la vita religiosa (religionem migrare), l’infermità (egritudine) e la vecchiaia (senectute). Uguccione da Pisa, alle cause citate aggiungerà l’inciso: si expediret; alias peccaret (12): la rinuncia viene riconosciuta come diritto del pontefice solo nella misura in cui da essa derivi un bene per la Chiesa. L’introduzione del principio del bonum commune Ecclesiae, trasferisce la questione della rinuncia dal piano del diritto oggettivo a quello coscienziale del foro interno (13).

Le Decretali di Gregorio IX non toccarono il tema della rinuncia del papa, limitandosi a disciplinare, nel titolo IX del libro I, la rinuncia episcopale. Questa, secondo la decretale Licet quibusdam di Innocenzo III, non è accettabile quando il richiedente può ancora esercitare l’episcopato con utilità (14). Nella decretale Nisi cum pridem i casi in cui la rinuncia episcopale è ammessa sono: la debolezza del corpo, la consapevolezza di un delitto, l’irregolarità, l’ostilità del popolo, un grave scandalo, la mancanza della necessaria conoscenza (15). La vecchiaia, intesa come causa della debilitas corporis insieme alla malattia, costituisce una delle principali legittimazioni di rinuncia (16). Non sono invece considerate cause legittime il desiderio di fuggire la posizione eminente connessa con l’ufficio episcopale, l’aspirazione ad eludere gli oneri e le funzioni proprie del vescovo, la volontà di sottrarsi ad una persecuzione non in atto ma solo incombente e lo zelum melioris vitae (17).

San Tommaso, intervenendo nel dibattito, richiede per la legittimità della rinuncia, che il vescovo non possa più reggere la diocesi senza grave pregiudizio per la salus animarum dei fedeli (18).

L’estensione interpretativa delle disposizioni del Liber Extra previste per i vescovi alla renuntiatio papale avverrà con papa Celestino V che, nel 1294, in occasione della sua rinuncia al pontificato – così come risulta dalla norma Quoniam aliqui del suo successore Bonifacio VIII –, stabilì espressamente che il romano pontefice potesse liberamente rinunciare.

Le reazioni furono immediate. Ubertino da Casale definì la rinuncia di Celestino V horrenda novitas. A favore della sua legittimità si pronunciò invece Godofredo di Fontaines († 1306). Il maestro di teologia alla Sorbona, applicando il principio aristotelico-tomista della causa finalis, sostenne che la rinuncia, qualora sussistano fondate cause, non solo è lecita ma addirittura dovuta, al fine di evitare un grave danno alla Chiesa (19). Egidio Romano (1243 -1316) sostenne che, ove il papa ravvisi la sua inadeguatezza a governare, se rinuncia per non nuocere al bene pubblico, compie opera meritoria (20). Secondo Giovanni Quidort († 1306), l’affermazione del primato papale si sostanzia in una cura animarum che subordina la potestas al servitium; il potere papale è più ministerium che dominium (21). Pietro di Auvergne (1350-1420) fondò la legittimità della rinuncia nello stesso comando divino che dispone di compiere, secondo ragione, tutto ciò che con evidenza risulta essere necessario alla salus e nel contempo proibisce quanto è ad essa contrario (22).

Dal punto di vista normativo, la disciplina sulla rinuncia papale trovò la sua prima codificazione espressa nella norma Quoniam aliqui, inserita da Bonifacio VIII nel libro I titolo VII del Liber Sextus (23).

La norma sarà poi codificata nel can. 221 del Codice pio-benedettino del 1917 (24) e, senza sostanziali cambiamenti, nel can. 332 § 2 del CIC 1983 che così recita: «Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non che sia accettata da alcuno» (25). Rispetto a Quoniam aliqui e al can. 221 del 1917 che parlavano di rinuncia senza ulteriori aggiunte, il can. 332 § specifica muneris.



2. Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata



«Carissimi Fratelli, vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. dopo avere a lungo esaminato la mia coscienza davanti a Dio…» (26).

Vertice di un cammino giuridico bimillenario, la rinuncia di Benedetto XVI si pone parimenti come affermazione sublime del primato insindacabile della coscienza, tratto che contraddistingue Benedetto come uomo compiutamente europeo. Nell’originale latino infatti, la storica frase della rinuncia si apre con il richiamo solenne alla coscientia, soggetto ultimo e insindacabile della grave decisione di Benedetto: Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata… Compimento straordinario del cammino teologico e esistenziale dell’ultimo grande intellettuale teologo europeo del XX secolo, il richiamo della coscienza costituisce il fondamento ultimo della sua scelta. Una conscientia scolpita negli anni di studio attraverso la frequentazione assidua di Socrate, Tommaso Moro, Newman, «guide per la coscienza» (27), secondo una definizione data dal cardinal Ratzinger nel corso di una sua famosissima conferenza.

Una coscienza da intendersi come l’aprirsi dell’uomo alla voce della verità e delle sue esigenze (28). Il commento di Ratzinger alla vicenda di Tommaso Moro già preannuncia tratti della sua futura biografia: «per lui la coscienza non fu in alcun modo espressione di testardaggine soggettiva o di eroismo caparbio. Egli stesso si pose nel numero di quei martiri angosciati, che solo dopo esitazioni e molte domande hanno costretto se stessi ad obbedire alla coscienza: ad obbedire a quella verità, che deve stare più in alto di qualsiasi istanza sociale e di qualsiasi forma di gusto personale. Si evidenziano così due criteri per discernere la presenza di un’autentica voce della coscienza: essa non coincide con i propri desideri e con i propri gusti; essa non si identifica con ciò che è socialmente vantaggioso, col consenso di un gruppo o con le esigenze del potere politico o sociale» (29).

Proprio il confronto prolungato con la coscienza così intesa, esaminata davanti a Dio, lo porterà alla gravissima decisione della rinuncia.

La riflessione su un passo così grave fu senz’altro stimolata dalla lunga e inabilitante malattia di Giovanni Paolo II, con le conseguenze a tutti note sulla gestione concreta del governo della Chiesa. Il 19 aprile 2005 il cardinal Joseph Ratzinger, da collaboratore di Giovanni Paolo II divenne suo successore; le conclusioni della riflessione iniziata durante la malattia del predecessore da quel momento avrebbero coinvolto il suo stesso destino.




3. L’affermazione del diritto-dovere di dimettersi



Benedetto XVI aveva già avuto modo di manifestare le sue convinzioni in materia di rinuncia nel libro-intervista con Peter Seewald Luce del mondo, pubblicato per i tipi della Libreria Editrice Vaticana nel novembre 2010. Alla domanda del giornalista «Ha mai pensato di dimettersi?», Benedetto XVI rispose: «Quando il pericolo è grande non si può scappare. Ecco perché questo sicuramente non è il momento di dimettersi. È proprio in momenti come questo che bisogna resistere e superare la situazione difficile. Questo è il mio pensiero. Ci si può dimettere in un momento di serenità. O quando semplicemente non ce la si fa più. Ma non si può scappare proprio nel momento del pericolo e dire: “se ne occupi un altro”». Incalzato dal giornalista: «Quindi è immaginabile una situazione nella quale Lei ritenga opportuno che il Papa si dimetta?», riprese: «Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto e in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi» (30).

In quell’occasione Benedetto XVI aveva chiaramente parlato non già di una mera facoltà arbitrariamente esercitabile, ma di un dovere ineludibile di coscienza, là dove il pontefice fosse giunto alla chiara consapevolezza di non essere più in grado di svolgere l’incarico affidatogli.

Tale dovere si fonda sulla natura stessa della sacra potestas nella Chiesa, sulle sue finalità e sui limiti del suo esercizio. Scrivendo a papa Eugenio III san Bernardo da Chiaravalle gli ricordava: praesis ut prosis, «sei a capo per essere utile». La formula viene così spiegata: «Tu presiedi per provvedere, per consultare, per sovvenire, per servire. Sei a capo per essere utile; sei a capo come quel servo fedele e saggio che il Signore costituì sulla sua famiglia. Perché? Per dare il cibo a tempo opportuno (Mt 24,45). Per questo, per dispensare, non per comandare» (31).

Nel pensiero dei Padri della Chiesa, tratto costitutivo del pastore non è quello di essere a capo quanto essere utile (32). L’essere a capo diventa allora strumentale all’essere utile; il principio di legittimazione del potere nella Chiesa si fonda pertanto nella sua utilità spirituale a vantaggio della comunità.

Dalla consapevolezza del fondamento diaconale-ministeriale del munus e della potestas nella Chiesa, ne consegue allora che, là dove il pastore si trovi nell’impossibilità di essere utile al popolo, viene meno la causa legittimante il suo essere a capo. Così Ivo di Chartres, scrivendo a Urbano II, affermava: «Poiché mi vedo essere a capo, ma non essere utile, spesso penso di rinunciare alla cura pastorale…» (33). In questa linea, poi ripresa dai passi già citati di Goffredo di Fontaines, Pietro di Auvergne, Egidio Romano e Giovanni Quidort, si porrà Benedetto XVI: «In questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa. Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi» (34).



3.1. «A motivo della età avanzata»


L’espressione ingravescente aetate, utilizzata da Benedetto XVI, richiama espressamente il Decreto conciliare Christus Dominus che, al numero 21, invita i vescovi a rassegnare spontaneamente o dietro sollecitazione le dimissioni, quando l’avanzata età (ob ingravescentem aetatem) o altro grave motivo li impedisse di adempiere il loro compito (35). Dello stesso tenore appare la preghiera rivolta dai Padri conciliari ai parroci nel numero 31 (36).

Paolo VI, dando esecuzione ai voti dei Padri Conciliari, inviterà col Motu proprio Ecclesiae Sanctae del 6 agosto 1966 vescovi e parroci a rinunziare al governo della diocesi e della parrocchia «non oltre i settantacinque anni»; con il Motu proprio del 21 novembre 1970 Ingravescentem aetatem, applicherà la medesima regola ai cardinali, invitandoli a presentare la rinuncia al loro ufficio al compimento dei 75 anni di età, stabilendo inoltre la perdita del diritto di eleggere il romano pontefice e di conseguenza di entrare in Conclave con il compimento degli 80 anni. Proprio il calo delle forze a motivo della età avanzata sarà addotto da Papa Benedetto XVI come motivo della rinuncia.


3.2. La formula di rinuncia innovativa introdotta da Benedetto XVI



Venendo ora alla formula utilizzata per esprimere la rinuncia, due sono i dati che emergono dalla declaratio: in primo luogo il mancato richiamo al can. 332 § 2; in secondo luogo la scelta di un lessico differrente tanto dalla norma Quoniam alicui di Bonifacio VIII che parla di rinuncia al papato (renuntiare papatui), quanto dal dettato codiciale che disciplina invece la renuntiatio muneri. La declaratio infatti afferma la renuntiatio ministerio. La novità della formula di Benedetto XVI può essere colta in tutta la sua portata ricostruendo le articolazioni argomentative del testo.

Dopo aver richiamato il primato della coscienza, Benedetto XVI afferma: «le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino» (37). La consapevolezza della coscienza riguarda la sopravvenuta inidoneità ad amministrare rettamente l’incarico (munus) petrino. Attraverso questa formulazione (vires meas… non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum), l’incarico (munus) viene distinto dalla sua amministrazione. Le forze gli appaiono inidonee all’amministazione del munus, non al munus stesso.

Riconosciuta l’inadeguatezza ad amministrare l’incarico, la rinuncia appare come atto dovuto. Ciò che si oppone alla rinuncia così intesa è però l’essenza eminentemente spirituale del munus petrino. Leggendo la rinuncia sotto l’ottica dell’efficienza moderna infatti, il ministro sacro viene equiparato all’amministratore delegato della «società Chiesa» che, quando non è più in grado, rimette il mandato agli azionisti; la rinuncia, sempre considerata secondo l’ottica moderna, farebbe uscire il papa dalla sfera del pubblico per farlo tornare nella sua privacy. Tali logiche mal si conciliano con l’essenza spirituale del ministero petrino, testimoniata da Giovanni Paolo II fino alla morte. Proprio l’exemplum o precedente autorevole del beato Giovanni Paolo II che, malgrado l’incapacità a governare, non rinunciò all’ufficio, rappresentava l’obiezione spirituale più profonda alla rinuncia.

In realtà proprio la comprensione spirituale del munus consente a Benedetto XVI di fondare la legittimità della sua rinuncia senza negare la scelta del suo predecessore. «Sono ben consapevole che questo ministero (munus), per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto (exequendum) non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando» (38).

Nel passo citato Benedetto XVI propone due fondamentali distinzioni in ordine al munus petrino: in primo luogo distingue tra munus e executio muneris, evocando la distinzione grazianea tra potestas officii e la sua executio (39) e riprendendo la distinzione tra munus e la sua amministrazione; in secondo luogo distingue, tra le diverse attività che compongono la executio, tra un’executio amministrativo-ministeriale (agendo e loquendo) e una più spirituale (orando e patiendo).

L’executio del munus petrino si compie allora non solo con l’azione e la parola, ma anche, non in grado minore, con la preghiera e il patire. All’adempimento amministrativo-ministeriale, che consiste nell’azione e nell’insegnamento, si aggiunge un adempimento più spirituale, non inferiore al primo, consistente nel patimento e nella preghiera.

Alla luce di tali considerazioni appare legittima e meritoria la scelta di Giovanni Paolo II adempiere il munus affidatogli con la preghiera e la malattia inabilitante le funzioni di governo in senso stretto, ovvero in senso amministrativo-ministeriale.

Rispetto al tempo di Giovanni Paolo II però le circostanze storiche sono cambiate: «nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato».

Il richiamo alle circostanze presenti (nostri temporis) con i cambiamenti avvenuti rende ora doverosa, per Benedetto XVI, una scelta diversa. È necessario il vigore del corpo e dell’animo per governare e annunciare il Vangelo. Riscontrando la propria incapacità ad amministrare bene il ministero affidatogli, dichiara di rinunciare al ministerium. Non al papato, secondo il dettato della norma di Bonifacio VIII; non al munus secondo il dettato del can. 332 § 2, ma al ministerium, o, come specificherà nella sua ultima udienza, all’«esercizio attivo del ministero» (40).

Nel giorno della elezione al pontificato aveva votato in modo nuovo tutta la sua vita al bene della Chiesa una volta per sempre; la decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero non revoca questo: «Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro» (41); dedicare la vita alla preghiera e alla meditazione «non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze» (42).
Il servizio alla Chiesa continua con lo stesso amore e con la stessa dedizione anche al di fuori dell’esercizio del potere. Oggetto della rinuncia irrevocabile infatti è l’executio muneris mediante l’azione e la parola (agendo e loquendo), non il munus affidatogli una volta per sempre.


Conclusioni


L’11 febbraio del 2013, in piena sintonia con la tradizione della Chiesa, Benedetto XVI dichiarava la sua rinuncia al ministero petrino. Rispetto al dettato del canone però dichiarava di rinunciare non già all’ufficio ma alla sua amministrazione. La rinuncia limitata all’esercizio attivo del munus costituisce la novità assoluta della rinuncia di Benedetto XVI. A fondamento giuridico della sua scelta non c’è allora il can. 233 § 2 che disciplina una fattispecie differente di rinuncia rispetto a quella pronunciata da Benedetto XVI. Il fondamento teologico giuridico è la plenitudo potestatis sancita dal can. 331. Proprio nel fascio delle potestà inerenti l’ufficio è compresa anche la potestà privativa ovvero la facoltà libera e insindacabile di rinunciare a tutte le potestà stesse senza rinunciare al munus.

Presa consapevolezza che le sue forze non erano più idonee all’amministrazione del munus affidatogli, con atto libero Benedetto XVI ha esercitato la pienezza del potere privandosi di tutte le potestà inerenti il suo ufficio, per il bene della Chiesa, senza però abbandonare il servizio alla Chiesa; questo continua mediante l’esercizio della dimensione più eminentemente spirituale inerente al munus affidatogli, al quale non ha inteso rinunciare.

L’atto supremo di abnegazione di sé per il bene della Chiesa costituisce in realtà l’atto supremo del potere posto in essere dal papa emerito, nonché ultimo atto solenne del suo magistero.

Il munus spirituale, per essere pienamente adempiuto, può comportare la rinuncia alla sua amministrazione; questa non determina in alcun modo la rinuncia alla missione inerente l’ufficio, ma ne costituisce il compimento più vero. Col gesto della rinuncia, Benedetto XVI ha incarnato anzi la forma più elevata del potere nella Chiesa, sull’esempio di Colui che avendo tutto il potere nelle sue mani depose le vesti (43), non dismettendo in questo modo, ma portando a compimento il suo ufficio a servizio degli uomini, cioè la nostra salvezza.

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NOTE


(1)  Utilizzo l’espressione con la quale i cardinali si opposero al tentativo di rinuncia fatto da Papa Celestino III intorno al Natale del 1197, a pochi giorni dalla sua morte: «Sed omnes cardinales una voce responderunt, quod illum conditionaliter non eligerent, dicentes, quod inauditum erat, quod summus Pontifex se deponeret», Ruggero di Howden, Chronica, ed. Stubbs, London 1871, IV, 32.

(2)  «È evidente che il Papa che si è dimesso non è più Papa, quindi non ha più alcuna potestà nella Chiesa e non può intromettersi in alcun affare di governo. Ci si può chiedere che titolo conserverà Benedetto XVI. Pensiamo che gli dovrebbe essere attribuito il titolo di Vescovo emerito di Roma, come ogni altro Vescovo diocesano che cessa» (G. Ghirlanda, Cessazione dall’ufficio di Romano Pontefice, in La Civiltà Cattolica 3905 (2013) 445-462, qui 448. Benedetto XVI, disattendendo l’indicazione di Ghirlanda, si è fatto invece chiamare Papa emerito.

(3)  Cfr. O. Guyotjeannin, voce Rinuncia, in Dizionario storico del papato, Milano 1996, 1263 ss.; P. Grandfield, Papal resignation, in The Juris 38 (1978) 118-123. Con qualche riserva anche A. M. Piazzoni, Storia delle elezioni pontificie, Casale Monferrato 2003, 69, 102, 155. Di diverso avviso V. Gigliotti, La renuntiatio Papae nella riflessione giuridica medievale, in Rivista di Storia del diritto italiano LXXIX (2006) 316 ss.

(4)  Il santo monaco, eletto suo malgrado cardinale e vescovo di Ostia nel 1057, nell’addurre precedenti volti a legittimare la sua rinuncia, richiama espressamente l’exemplum di Benedetto che non esitò a rinunciare al governo che aveva ricevuto: «Porro autem et B. Benedictum instar magni cujusdam pontificis, possumus ad exemplum imitationis inducere, qui videlicet commissum non ambigitur regimen dimisisse», Opusculum XIX. De abdicatione episcopatus, PL 154, 441C.

(5)  Nella presentazione delle rinunce vere o presunte al pontificato seguo V. Gigliotti, La Renuntiatio Papae nella riflessione giuridica medievale, cit., 301 ss., cui rinvio per approfondimenti.

(6)  V. Gigliotti, La Renuntiatio Papae, cit., 310.

(7)  a. M. Piazzoni, Storia delle elezioni pontificie, cit., 22.

(8)  Casi dubbi sono quelli di Martino I (654-655), Benedetto V (964) e Giovanni XVIII (1009 ?), Benedetto IX, Gregorio VI. Sul punto si confronti V. gigliotti, La Renuntiatio Papae, cit., 314-315; 321-326.

(9)  Così l’incipit dello scritto supplice indirizzato a papa Nicolò II: «Orat pontificem summum, suppliciterque obsecrat, ut sibi episcopatus onus deponere permittat: causas praecipuas affert, quod senior sit, et idcirco quieti magis quam laboribus idoneus; quod illud laboriosum munus non sponte, sed coactus susceperit, et denique quod propter sua peccata, ut ipse inquit, indignus sit qui in tam excelso honoris et dignitatis fastigio sedeat. Licere autem, si ita tempus aut ratio postulet, episcopatu se abdicare, plurimis sanctorum virorum et exemplis et auctoritatibus comprobat. In fine Deum precatur, ut eam pontifici mentem det, qua suis votis satisfaciat»; Pier Damiani, Opusculum XIX. De abdicatione episcopatus, PL 145, 423A.

(10)  «Sacramentum autem inter Romanum pontificem et Romanam Ecclesiam tam firmum et stabile perseverat, ut non nisi per mortem unquam ab invicem separentur; quia mortuo viro mulier, secundum Apostolum, “soluta est a lege viri (Rom. VII)”. Vir autem iste alligatus uxori, solutionem non quaerit, non cedit, non deponitur; nam “suo domino aut stat, aut cadit (Rom. XIV)”. – “Qui autem judicat, Dominus est (I Cor. IV)”. Propter causam vero fornicationis Ecclesia Romana posset dimittere Romanum pontificem. Fornicationem non dico carnalem, sed spiritualem; quia non est carnale, sed spirituale conjugium, id est propter infidelitatis errorem», Innocenzo III, Sermones de diversis, III, PL 217, 664D-665A.

(11)  Cfr. V. Gigliotti, La Renuntiatio Papae, cit., 330.

(12)  «Sed numquid papa hodie posse se ipsum deponere uel abrenuntiare et intrare monasterium? Credo quod sic, si expediret; alias peccaret. Et nunc eo uiuente substitueretur», Uguccione da Pisa, Summa Decretorum, glossa tuo ore a D. 21 c. 7.

(13)  Cfr. V. Gigliotti, La Renuntiatio Papae, cit., p. 332.

(14)  «Quando potest episcopus praeesse pariter prodesse, non debet cedendi licentiam postulare, aut etiam ?obtinere» (X.3.31.18).

(15)  «Intueri te itaque, venerabilis frater noster in Christo, volumus, quod haec sunt illa, per quae cedendi episcopus officio pastorali licentiam potest postulare: conscientia criminis, debilitas corporis, defectus scientiae, malitia plebis, grave scandalum, irregularitasque personae» (X.1.9.10).

(16)  «Alia vero causa est debilitas corporis, propter quam aliquis potest petere ab onere sollicitudinis pastoralis absolvi, quae videlicet vel ex infirmitate, vel ex senectute procedit; nec tamen omnis, sed illa solummodo, per quam impotens redditur ad exsequendum officium pastorale» (X. 1.9.10).

(17)  Cfr. V. Gigliotti, La Renuntiatio Papae, cit., 334-335.

(18)  «Sed si salutem aliorum procurare non possit, conveniens est ut suae saluti intendat», Tommaso d’Aquino, S.Th. II-II, q. 185, art. V, t. 4.

(19)  Cfr. V. Gigliotti, La Renuntiatio Papae, cit., 359.

(20)  «Sed si videret se insufficientem ad gubernandam Ecclesiam, et quia nollet, quod bonum publicum sub ipso langueret, si hoc modo cederet, multum mereretur. In potestate quidem sua est cedere, cum vult. Et si cedat, tenebit eius cessio. Sed caveat, quo animo id faciat», Egidio Romano, De renuntiatione papae, VI.

(21)  Cfr. V. Gigliotti, La Renuntiatio Papae, cit., 362.

(22)  «Racionabile enim est deum precipere quidquid secundum racionem evidenter necessaria ad salutem et prohibere omne contrarium. Hoc eciam ordinatum aut suppositum quod possibile est per dominum Celestinum, quod scilicet summus pontifex cedere possit in casu et ideo hoc simpliciter est tenendum», PietRo di Auvergne, Quaestio XV del Quodlibet I.

(23)  «Quoniam aliqui curiosi disceptantes de his, quae non multum expediunt, et plura sapere, quam opporteat, contra doctrinam Apostoli, temere appetentes, in dubitationem sollicitam, an Romanus Pontifex (maxime cum se insufficientem agnoscit ad regendam uniuersalem Ecclesiam, et summi Pontificatus onera supportanda) renunciare ualeat Papatui, eiusque oneri, et honori, deducere minus prouide uidebantur: Caelestinus Papa quintus praedecessor noster, dum eiusdem ecclesiae regimini praesidebat, uolens super hoc haesitationis cuiuslibet materiam amputare, deliberatione habita cum suis fratribus Ecclesiae Romanae Cardinalibus (de quorum numero tunc eramus) de nostro, et ipsorum omnium concordi consilio et assensu, auctoritate Apostolica statuit, et decreuit: Romanum Pontificem posse libere resignare. Nos igitur ne statutum huiusmodi per temporis cursum obliuioni dari, aut dubitationem eandem in recidiuam disceptationem ulterius deduci contingat: ipsum inter constitutiones alias, ad perpetuam rei memoriam, de fratrum nostrorum consilio duximus redigendum».

(24)  «Si contingat ut Romanus Pontifex renuntiet, ad eiusdem renuntiationis validitatem non est necessaria Cardinalium aliorumve acceptatio».

(25)  «Si contingat ut Romanus Pontifex muneri suo renuntiet, ad validitatem requiritur ut renuntiatio libere fiat et ite manifestetur, non vero ut a quopiam acceptetur».

(26)  Benedetto XVI, Declaratio, 10 febbraio 2013.

(27)  J. Ratzinger, Coscienza e verità, in Id., La Chiesa. una comunità sempre in cammino, Cinisello Balsamo 2008, 139-169, qui 150.

(28)  Ibid., 157.

(29)  Ibid., 154.

(30)  Benedetto XVI, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald, Città del Vaticano 2010, 52-53.

(31)  «Ita et tu praesis ut provideas, ut consulas, ut procures, ut serves. Praesis ut prosis; praesis ut fidelis servus et prudens, quem constituit Dominus super familiam suam. Ad quid? Ut des illis escam in tempore (Matth. XXIV, 45); hoc est, ut dispenses, non imperes», Bernardo di Chiaravalle, De consideratione III, 1, 2.

(32)  La formula patristica, indicante la natura diaconale del potere nella Chiesa, trova numerosissimi impieghi presso i Padri. Come affermava Agostino nel De Civitate Dei XIX, 19, 19: «Non esse episcopum qui praeesse dilexerit, non proesse curat». San Cesario di Arles dirà nel Sermo 230, 1: «Qui populo Dei non tam praeesse, quam proesse desiserit». Nella Regola Pastorale II, 6, scrive Gregorio Magno: «Unde cuncti qui prosunt, non in se potestatem ordinis sed aequalitatem pensare condicionis; nec praesse se hominibus gaudeant, sed proesse». Nell’omelia XVII, 4, tenuta ai Vescovi in Laterano, Gregorio rimprovererà quei pastori che si si comportano più da padroni che da padri (pastores qui dominos se potius quam patres exhibent) così nuocendo a quanti avrebbero invece dovuto giovare (et quibus proesse debuerant, nocent).

(33)  «Unde video me praeesse, sed nulli fere proesse, saepe delibero renuntiare curae pastorali, et ad pristinam quietem redire», ivo di Chartres, Epistola 25.

(34)  Benedetto XVI, Udienza generale del 27 febbraio 2013.

(35)  «Cum igitur pastorale Episcoporum munus tanti sit momenti tantaeque gravitatis, Episcopi dioecesani aliique in iure ipsis aequiparati, si, ob ingravescentem aetatem aliamve gravem causam, implendo suo officio minus apti evaserint, enixe rogantur ut, vel sua ipsi sponte vel a competenti Auctoritate invitati, renuntiationem ab officio exhibeant. Competens autem Auctoritas, si illam acceptaverit, et de congruenti renuntiantium sustentatione et de peculiaribus iuribus iisdem recognoscendis providebit».

(36)  «Parochi autem, qui ob ingravescentem aetatem aliamve gravem causam, ab officio rite et fructuose adimplendo impediuntur, enixe rogantur ut sua ipsi sponte, aut ab Episcopo invitati, officii renuntiationem faciant».

(37)  Benedetto XVI, Declaratio, 10 febbraio 2013.

(38)  Benedetto XVI, Declaratio, 10 febbraio 2013

(39)  Cfr. Decretum Gratiani, C. 24, q. 1, dict. post. c. 37.

(40) Benedetto XVI, Udienza generale del 27 febbraio 2013.

(41) Ibid.

(42) Benedetto XVI, Angelus del 24 febbraio 2013.

(43) Cfr. Gv 13,2-4, ma anche Fil 2,5-7: «pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso…».

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15.9.2014